Scritto da Simone Azzoni | mercoledì, 19 novembre 2014 · Lascia un commento
Filippo Timi, Skianto – foto di Neige De Benedetti
Quando il postmoderno invade il teatro, la sua corrosione feroce dissolve il linguaggio e l’unità di scena, denotazione e connotazione dei costumi, la funzione comunicativa del recitato e la sintassi narrativa dello spettacolo. Skianto di Filippo Timi, passato anche al Nuovo di Verona, sta al teatro di narrazione come Matthew Barney sta all’unità epistemologica dell’arte. Il barocco eccentrico dell’artista californiano è solo il contenitore immaginifico per esplosioni di citazioni che deflagrano in lustrini e paillettes. La storia è quella già sentita ne Il festino di Emma Dante o nei racconti d’infanzia di Davide Enia: la malattia, l’handicap come metafora di un autismo comunicativo che implode in ricordi, racconti poetici chiusi nelle stanze impraticabili della mente. I modi e le forme sono però passati dal frullatore del postmoderno che ha ridotto a frammenti la narrazione e le sue velleità di unità e coerenza sintattica. A partire dalla scena. Sul fondale grigiastro della palestra in cui s’agita la follia di Filippo Timi sono proiettati gli spot painting di Damien Hirst. Imitazioni dell’imitazione Pop Art, mise en abyme infinita della duplicabilità dell’inutile. Futilità dell’oggetto, del suo souvenir emotivo, alter ego triste di uno squallore esistenziale che si vaporizza nel trabocchetto della Brit-art al mercato dell’arte. Anni del vuoto stroboscopico in cui rimbalzano i desideri dell’attore che ora è pensiero, ora è corpo ridicolo che danza con un metro da sarta in bocca: corpo sghembo e rotto come il Teatro Valdoca ha insegnato.
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